La claupa di Andreuzzi e le rupi del Dodismala

DATI
Lunghezza: 9.0 Km - Km sforzo: 18.0 Kmsf - Salita: 900 m - Discesa: 900 m - Dislivello totale: 1800 m - Altitudine minima: 369 m slm - Altitudine massima: 1079 m slm

Difficoltà:
Cammino: Alta
Accessibilità
Disabili (carrozzina): Non accessibile
Bimbi (passeggino): Non accessibile
Famiglie: Impegnativo
Anziani: Sconsigliato
Cani: Sconsigliato
Io peso
kg
e ho
Questo percorso corrisponde a...
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ore
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Kcal
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Vita in più
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CARATTERISTICHE - La claupa (=tana) di Andreuzzi è il piccolo anfratto in cui il medico patriota di Navarons trovo riparo dopo il fallimento dei "moti di Navarons" del 1865, la rivolta che nei piani di Mazzini e Garibaldi avrebbe dovuto innescare in Veneto e Friuli l'insurrezione popolare contro gli occupanti austriaci ed indurre l'attacco del Regno d'Italia contro l'Austria, allo scopo di ultimare il processo di unità. Fu l'unica delle rivolte che progettate tra Veneto e Friuli che ebe qualche effetto, essendo tutte le altre stroncate sul nascere dagli austriaci. Ci troviamo in forcella Navedeid sul monte Corda l'8 novembre con la fine della pereginazione della banda ridotta a pochi uomini (inizalmente erano 58): dopo il fallimento dell'insurrezione a Spilimbergo la banda si ritira tra i monti della val Tramontina, ove dopo 3 settimane di peregrinazioni, fughe e scontri con gli austriaci, decide di disciogliersi. Andreuzzi - ideatore della rivolta- è il più ricercato dalla polizia austriaca e per questo risale le rupi del Dodismala fino a trovare riparo nella claupa, una tana davvero nascosta sulle pendici del monte Corda, probabilmente guidato ed aiutato dai residenti delle stalle Spinespes, anche per il fatto che presso la claupa non vi è disponibilità di acqua ed egli vi rimase per 3 settimane, per poi scendere e nescostamente fuggire e trovare riparo in Emilia. Antonio Andreuzzi è un eroe dimenticato o sottovalutato, ma con straordinaria generosità ha partecipato alle tre guerre di indipendenza ed ha esercitato il proprio servizio di medico per la val tramontina, morendo all'età di 70 anni in povertà. Gli eventi dei moti di Navarons sono miabilmente descritto neL libro di Giorgio Madinelli "I sentieri dei garibaldini" edito da Ediciclo, ove è riproposta l'intera percorrenza del rocambolesco inseguimento e dove è presentata una sintetica ed assai efficace sintesi degli eventi risorgimentali a cura di Sigfrido Cescut
DESCRIZIONE - La partenza descritta nel tutorial è da Chiarzuela,ma quella più naturale sarebbe da Inglagna. Dal minuscolo abitato di Chiarzuela ci incamminiamo in discesa lungo la strada asfaltata che scende verso Inglagna e che in breve diventa prima sterrrata, per poi trasformarsi in sentiero dopo il passaggio nei pressi di una casa (Cuel Bernaz). Il sentiero scende da Chiarzuela in direzione di Inglagna che raggiunge facilmente in 850 metri (perdendo 130 metri di dislivello). Da Inglagna ci incamminiamo lungo le tracce dei sentiero CAI 393A che segue parallelo la risalita del torrente Inglagna e quindi comodamente la valle Inglagna senza particolari difficoltà fino a giungere al breve tratto di strada asfaltata (560mslm) che unisce le due gallerie che porterebbero tramite quella di sinistra al lago di Selva e quella di destra al lago del Ciul. Fino a questo punto sarà possibile trovare acqua dal torrente, mentre più in alto non ne troveremo. Dopo essere tranitati accando ai ruderi di un casotto, il sentiero sbuca a ridosso dell'imbocco della galleria di destra: ci dirigiamo per una trentina di metri sull'asfalto a sinistra verso l'altra galleria per trovare la prosecuzione della seconda parte del sentiero, all'inizio del quale è posta una targa a memoria di Antonio Andreuzzi.
La traccia ora segue in parte l'alveo (asciutto) del torrente Dodesmala è un pò meno battuta ed un pò più pendente anche se mai impegnativa.
Poco dopo (300 metri) l'inizio di questa seconda parte transita a fianco dei ruderi della stalla Spinespes: da qui volendo perdere una decina di minuti ci si potrà portare a sinistra per curiosare la piccola località abbandonata di Spinespes, ove insitono tre edifici ormai fatiscenti: rientrati sui nostri passi troviamo in breve tempo i ruderi della stalla de la Fusita (= vagina; indica un intaglio di cresta stretto e profondo).
Dalla stalla Spinespes saliamo per 400 metri (23%) fino a giungere al bivio che a sinistra porta alla Claupa di Andreuzzi, mentre la traccia di destra sale a forcella Dodismala.   
Inizia ora il tratto con maggiore pendenza: saliamo per 430 metri (50%) nel sottobosco a fianco del torrente (ascutto) Dodismala, incontrando a circa metà salita la segnalazione del bivio che ancora una volta a destra ci porterebbe a forcella Dodismala, mentre noi continueremo sulla sinistra. La salita si conclude in un successivo bivio che a destra conduce alla forcella de la Fusita, mentre noi slaiamo a sinistra, attraversando il piccolo greto e portandoci una larga cengia alberata ove risaliamo a fianco delle rocce e dopo essere transitati a fianco di un piccolo antro sbuchiamo in una piccola insellatura. Da qui inizia il breve ultimo tratto (circa 200 metri) un pò impervio e talora leggermente esposto, ma ove è stata posizionata una corda metallica che agevola il passaggio. Una bandiera italiana resiste alle intemperie ed è posizionata su un punto panoramico: la claupa si trova ad una decina di metri sulla sinistra sotto le rupi del Dodismala. E' un piccolo anfratto in cuo può stendersi e ripararsi una persona.   

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I MOTI DI NAVARONS - Il 16 ottobre  1864  una cinquantina di uomini armati di fucili e bombe a mano, con  il tricolore in testa, guidati  da romantiche  figure di idealisti,  patrioti reduci delle battaglie garibaldine, partirono dal piccolo ed isolato  borgo montano di Navarons alla volta di Spilimbergo e Maniago con l’obiettivo  di attaccare la guarnigione austriaca, occupare la caserma della gendarmeria, inalberarvi il vessillo tricolore, invitare le popolazioni ad insorgere contro gli Austriaci. Iniziava così  il primo atto di una complessa guerra  per bande  di mazziniani e garibaldini, che aveva  come scopo quello di provocare  l’intervento  dell’esercito regio italiano e di Garibaldi per una definitiva  liberazione del Friuli, della Venezia Giulia, del Veneto e del Trentino che allora erano sotto la dominazione austriaca.
Con quella di Navarons,  altre bande dovevano contemporaneamente  muoversi  nell’arco  delle Prealpi venete e friulane ma,  per una serie di motivi, i patrioti friulani  si trovarono da soli a fronteggiare una decisa  reazione degli Austriaci. Fu Mazzini che pensò di organizzare questa vasta insurrezione  popolare che dal Trentino al Friuli avrebbe poi dato origine  ad altre rivolte  fuori dall’Italia, in Romania, Ungheria, Serbia e Polonia.
Secondo Mazzini  questo vasto movimento  insurrezionale e il concorso dell’opinione pubblica favorevole  avrebbero dovuto trascinare  l’esercito italiano in una guerra contro l’Austria.
L’ipotesi mazziniana  si fondava sull’organizzazione  di bande armate di una cinquantina di uomini ciascuna che dovevano attaccare punti strategici e ritirarsi sui monti, distogliendo quanti più soldati possibili dalle città, così da permettere una sollevazione popolare.
Vittorio Emanuele II nascostamente  si era accordato con Mazzini e Garibaldi affinché preparassero, il primo, l’insurrezione e, il secondo, l’intervento armato dei suoi volontari. Questo avrebbe indotto il governo ad una giustificata guerra contro l’Austria per liberare la popolazione italiana delle terre irredente. Mazzini e il re speravano di prendere l’Austria tra due fuochi, costretta a fronteggiare  sollevazioni indipendentiste  di ungheresi  e polacchi , mentre lo stesso  Vittorio Emanuele  avrebbe fornito  le armi agli insorti veneti. Napoleone III, venuto a conoscenza  di questi progetti,  impose il suo  divieto assoluto di attacco al Veneto. Il re si tirò indietro, abbandonò Mazzini e successivamente interruppe una trattativa che aveva iniziato con Garibaldi.
Mazzini  non rinunciò ad agire. Sapeva  di poter fare affidamento  su poche risorse finanziarie, ma decise  ugualmente di attuare  il suo tentativo, nella convinzione che solo  l’insurrezione  popolare avrebbe potuto liberare il Veneto dal dominio austriaco. Si assunse  personalmente l’onere   di organizzare questo movimento mettendo i mezzi necessari  a disposizione  dei comitati  del suo Partito d’Azione dislocati  nei territori  dell’arco nord-orientale.
Qui nel 1863 vennero costituiti Comitati d’Azione  per preparare il piano insurrezionale e formare delle bande armate di patrioti. Anche in Friuli venne quindi costituito un  Comitato d’Azione con presidente il medico Antonio Andreuzzi da Navarons che curò personalmente l’organizzazione della banda armata delle Alpi Friulane.
Dopo lunghi preparativi, contatti  con altri gruppi rivoluzionari, ordini e contrordini,  il 16 ottobre 1864 la banda partì da Navarons alla volta di  Spilimbergo   e di Maniago. In questi due centri riuscì  solo a disarmare  la gendarmeria austriaca  ma non a far insorgere la popolazione. La gente  non aderì alla sollevazione. Constatata l’indifferenza da parte della popolazione locale, la banda  con la bandiera in testa  prese la via  verso Tramonti di Sopra dove pernottò. Il giorno seguente la banda si rimise in cammino con  l’intento di unirsi, al Passo della Morte, ai presunti insorti del Bellunese e del Cadore, invece  furono costretti a tornare  indietro perché le truppe austriache  avevano occupato la zona di Ampezzo. Tra i monti i nostri uomini  si erano resi conto che il telegrafo non era stato tagliato come prestabilito e che il comando austriaco aveva potuto rapidamente  organizzare  la loro caccia. Con l’aiuto di spie  gli austriaci avevano  fermato i responsabili delle bande del Trentino, del  Veneto e del Cadore costringendole all’immobilità.
Le azioni  delle altre bande, che di concerto  con quella delle Alpi Friulane, dovevano partecipare  al moto insurrezionale,  non ebbero quindi inizio, perché i gruppi rinunciarono ai loro propositi al tempestivo accorrere della gendarmeria austriaca. Il moto della banda di Navarons, detta anche banda Tolazzi  o  delle Alpi Friulane,  si svolse  dal 16 ottobre all’8 novembre 1864, e fu una continua fuga tra i monti inseguiti dai soldati austriaci, trovando rifugio nelle stalle e nelle grotte.
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ALCUNI BRANI TRATTE DALLE "MEMORIE" DI ANTONIO ANDREUZZI
 
I PREPARATIVI INSURREZIONALI
Nel mese di luglio venivano a me diretti due operai di una fonderia di Genova per la fabbricazione delle bombe orsiniane. Raccolto in Villanova il comitato per trovare sicuro locale per questo importante e pericoloso lavoro, si fecero varie proposte, ma furono tutte come inopportune scartate. Allora pensando al mio paese natio, Navarons, che sorge all’imboccatura dello stretto del ponte Racli, piccolo villaggio di 400 abitanti, tutti di fede repubblicana avuta da me e da mio fratello Luigi; pensando dissi a quel paese, dove si trovavano tutti gli elementi della maggior probabile sicurezza, per la posizione montuosa e lontana dai centri ove formicola lo spionaggio e la gendarmeria; ivi decisi di collocare la pericolosa officina.
Navarons è un piccolo villaggio dell’alto Friuli posto sopra un colle ameno che sorge a destra del torrente Meduna, sopra una parte dell’ultima falda sud-est del monte Raut.
Sopra il colle di Navarons s’incontrano le balze dirupate del Raut, le quali costituiscono quella regione denominata Trep. In mezzo a quelle roccie s’apre una caverna il cui meato si sottrae allo sguardo dell’ardito cacciatore, che talvolta tenta l’accesso di quelle selvagge rupi: meato che non è noto che a pochi pastori navaronesi e da loro chiamato Fous di Marcat perché appunto in quel sito transitava il pastore che portava questo nome.
Fu quell’antro da noi scelto per la fabbricazione delle bombe Orsini.
Dopo tre mesi di pericoloso lavoro il compito felicemente riesceva terminato. Bello era il vedere come quei robusti montanari con zelo ed amor di patria, pur troppo non comune, portavano i pesanti materiali nella caverna, ai due distinti artisti venuti da Genova, e come li assistevano parte nel lavoro, e parte nel far guardia per schermirsi da ogni possibile pericolo.

PRIME OPERAZIONI DELLA BANDA INSURREZIONALE ANDREUZZI
Riunita nella casa nativa di mia moglie Caterina, alle due antimeridiane (la banda armata) partiva da Navarons, arrivava in Spilimbergo, disarmava la gendarmeria, s'impadroniva della cassa erariale; quindi partiva per Maniago e faceva altrettanto. In Spilimbergo, il capo del Comitato e quello che teneva l'arruolamento dei volontari, non comparvero, gli altri fuggirono, e nessuno ricevette la banda. A Maniago arrivavasi poche ore dopo. Simpatica  accoglienza,  promesse di seguir la banda, e raggiungerla la sera in Tramonti, promesse mancate. Dopo tre ore di bivacco a Tramonti di Sopra, la banda salì il monte Rest, diretta in Carnia per occupare i punti strategici ed unirsi agli insorti del Cadore, con la certezza di trovare le promesse bande del Bellunese e del Cadore stesso.
Con quei forti montanari avevamo guerreggiato nel 1848, duce il non mai abbastanza compianto Colonnello Calvi. Ma colà arrivati fummo convinti di un doloroso disinganno, ed invece che dai fratelli, trovammo occupati quei posti (dalla Carnia fino al Cadore) dalle orde austriache: oltre 4.000 Jager impauriti dalla nostra audace iniziativa, accorsi con straordinaria rapidità. La banda fu costretta a risalire il monte Rest a tutta notte  e stanca arrivava alla vetta col favore della luna e nella speranza di riposare a Tramonti. Ma appunto alla vetta incontrai il mio servo spedito da mia moglie, che mi avvisava di evitar Tramonti,  occupato da cavalleria e truppa di linea,  e quest'ultima in numero di 1500. Allora prendemmo la direzione di Chiarpegnis e dopo di aver girato in un labirinto di sentieri arrivammo al burrone Velcai, abitato da un unico pastore capraio, Parlapoco Domenico. Colà sgozzate alcune capre che ci offerse il patriottico capraio, e ristorati un poco, ascendemmo l'alta vetta (sovrastante la malga) Chiampis fino alla forca del Bec, per dove erano già passate truppe francesi all'epoca dello loro invasioni.

ARDUE MARCE SOTTO LA PIOGGIA
Indi calammo pel lavinale Cuèl Flurît e superati questi pericoli e superati quelli della sonedola, a notte si arrivava all’altro burrone di Sélis. Dove vi sono cinque capanne pastoreccie, distanti da Tramonti otto miglia di pericolosissime strade. Si salivano e discendevano monti per schermirsi dal nemico, finché non veniva opportunità di batterlo.
Io da giovane spiegai passione per la caccia e per quella del camoscio in particolar modo, per cui l’autunno bivaccava le notti sulle vette dei nostri monti; e così imparai a conoscere tutto quel gruppo di monti e valli che fu poi il teatro dei moti del Friuli.  
I nomi di questi monti e passi oltre citati sono: Navadeit, Dodismala, Querda, Gereach, Val Ruvolons, Val Andreana, Forca Clautana, Valinfier, Navalesc, Castello, Forca del Poul, Pecolat, Tasseit, Tronconere, Antro del Castello ecc.
A Selis la banda, riposata alquanto, gira sorvegliando gli accessi per sorprendere qualche corpo nemico, non gli vien fatto. Il giorno 21 ottobre, inseguita da più lati, e quasi attorniata si sottrae salendo il Canal Piccolo di Meduna, e dopo aver fatto alt all'antro del Cerâr, onde rifugiarsi s'arrampica per le balze Rupat ed arriva alla Fous del Poul e si cala nella valle Silisia, tutto il giorno sotto la pioggia.

LA BATTAGLIA DEL MONTE CASTELLO
Fino a quel giorno senza nessuna notizia dal di fuori, fu presa la determinazione di mandare a Udine uno dei nostri. Vico Michielini, assunto volenteroso l'incarico, partì. L'antro sta due miglia circa da Andreis, internato in una roccia del monte Castello, ma tanto è difficile l'accesso per la ertezza, che ci vollero 4 ore di marcia.
Si entra per un piccolo spazio erboso, che gira sopra un abisso ed una corta boscaglia, ergendosi sulla sinistra di chi entra alto ben 50 metri, così che copre l'antro dalla parte d'Andreis; a destra la fascia erbosa continua girando attorno ad un altipiano che conduce in un burrone roccioso senza uscita.
Noi in quell'antro aspettavamo il ritorno del Vico. Eravamo provveduti di vettovaglie dalla gioventù di Andreis, che coraggiosa sfidava i rigori del capitano Ferrari, comandante il corpo di truppe stanziate il quel paese.
Il giorno 30 ottobre ritornava il Vico. Giunto nell'antro cogli evviva a Garibaldi, rallegrava straordinariamente; tutti pendono dal suo labbro; annuncia il ritorno di Cella da Milano con queste novità: Bezzi Egisto entrava pel Tirolo con una legione di circa 300; altri corpi volontari si stavano organizzando per entrare da altre parti; Cella armerebbe la sua banda e alla più lunga, insorgerebbe il 6 novembre; la notte precedente farebbe con una mina saltare il ponte del Tagliamento; infine che Cella gli aveva consegnato un gruppo di 94 marenghi con ordine di rinforzare la banda, e che egli, il Vico, passando per Navarons aveva parlato con P. Passudetti perché tenesse le armi, ed armasse la gioventù che stava pronta ad aspettare la nostra uscita dall'antro, e quella della banda Cella in S. Daniele per dare l'assalto alla lasciata guarnigione in Navarons composta di 60 uomini. Applausi replicati ed inno di Garibaldi.
Il giorno 4 novembre spedivamo due bravi giovani di Andreis, uno a S. Daniele, l'altro a Casarsa, perché la sera del 6 si trovassero all'antro il primo colle notizie del Cella, il secondo con quelle dello scoppio della mina del Tagliamento.
II giorno 5 due dei nostri, col favore della nebbia, partono dall'antro, superano la costa descritta;  manca all'improvviso la nebbia e sono riconosciuti per la camicia rossa dal Comandante di Andreis, che in quel momento esplorava col cannocchiale; questa vista lo mette sulle tracce e scopre tutto.
La notte del 6 uno dei nostri fedeli andreani viene ad avvertire che s'avanza verso l'antro un corpo di militari e gendarmi; il nemico che ha fatto occupare tutti gli sbocchi da altri 300 cacciatori, ritirati da Andreis e Pofabbro; e che egli per vie ritorte avrà potuto precedere quel corpo, ma che era da noi distante non più di 15 minuti. Prese le armi, si sale la costa boscosa sino alla sommità; Tolazzi capitano della banda, ed io rappresentante il Comitato d'azione e soldato, si stabilisce di batterci in caso d'attacco, dolenti di dover rinunciare con ciò alla vagheggiata impresa di Navarons.
Il Vico ed il famoso Zacchè posti dietro una plaga di terreno per sorvegliare i passi dei nostri assalitori, s'accorsero che, avvicinati alla costa, si dividevano in due parti: l'una scendeva la costa dalla parte netta e non boscosa che guarda Andreis e l'altra si disponeva a girarla, e cosi trovarsi all'ingresso dell'antro da due parti.
Il Vico ci avverte con un colpo di fucile, che tirò contro il nemico posto alla distanza di venti passi da lui e meno assai da noi. A questo colpo balzammo in piedi con gli evviva d'Italia e Garibaldi. La vista della camicia rossa li sbalordì. Si riunirono tutti insieme si fecero riparo d'una roccia; e si impegnò una viva fucilata d'ambo le parti. Al primo colpo uno degli austriaci rimase morto, e 7 feriti. Il capitano Ferrari ai primi caduti si diede alla fuga. Vedendo che i suoi fratelli dalle rocce continuavano il fuoco, Tolazzi ordina alla baionetta, ed in allora i nemici si danno tutti a precipitosa corsa verso Andreis. Il popolo di quel patriottico paese, trepidando sulla nostra sorte, alle prima fucilate si raccolse sulla piazza. Era un bei giorno di sole e così gli Andreani a bell'ora di mattino, poterono contemplare la fuga di quei vigliacchi, ridendo sulle rodomontate del loro capitano; dimostrazione che costò loro cara, pagandola col saccheggio e parte col carcere. Gli Austriaci lasciarono il morto e i feriti sul campo, e solo molte ore dopo la nostra partenza andarono a raccoglierli, scortati da molte guide di Andreis che a ciò furono sforzate. Noi non ebbimo che un ferito gravemente, certo G.Batta Del Zotto (detto Centesim di Tramonti di Sotto) e Silvio Andreuzzi leggermente alla sommità della  spalla.
L' inseguire i fuggenti era per noi impossibile, perché saremmo caduti nella rete di un grosso corpo di nemici. Con sei ore di marcia delle più faticose e pericolose ascendemmo il monte Navalesch, portando e sorreggendo secondo i siti il nostri povero ferito, che fummo costretti ad abbandonare in mano al pastore Marcolino Gravenna delle Tronconere in canale Selisia, che dopo il quale poi cadde in mano agli Austriaci.

CIRCONDATI DECIDONO IL DISARMO
Il giorno 7 ci trovammo circondati da ogni parte nel canale di Silisia. Parte della truppa austriaca era discesa da Claut, parte ascesa da Chievolis, parte salita per il Salinchieit di Pofabbro. Appena ebbimo tempo di far la polenta da Polaz nella Valina e, preso un passo pericolosissimo e attorniati da vicino, potemmo ingannarli salendo il Gereach pel rugo Ruvolons e bivaccarsi in quelle nude gole.
Il giorno 8, dopo una lunga marcia, ci trovammo sopra il monte Gereach alla forca Navadeit pronti a discendere a Selis nel Canale Meduna. Speranza tradita.
Da quella vetta si vedono girare a grosse pattuglie gli Austriaci. II borgo Inglagna, che sta dall'altra parte ai piedi del Dodismala, è occupato; alle spalle siamo inseguiti da quelli della valle Silisia. Attorniati d'ogni parte, non c'è più speranza d'aprirsi il varco colle armi.
Nascosti in una folta macchia vicino alla gola Dodismala, risolvemmo il disarmo. Si nascondono le armi in una caverna, e a due a due, levate le camice rosse, chi di qua, chi di là, tenta di cavarsi dalla formidabile cerchia. Io, stanco dalla marcia di due giorni e due notti, mi risolvo a cacciarmi in una caverna sotto un filone di roccia, condotto da un fido montanaro che fu mio cliente di Inglagna, trovato li che faceva legna da fuoco.
Fu dura la separazione, e rifiutai il mio Silvio ed altri che volevano farmi compagnia, per non perir tutti assieme.
Sotto quella roccia stetti dal giorno 8 fino al 26 novembre, senza fuoco, senza paglia; tre giorni sotto la pioggia, sempre circondato e cercato da pattuglie, le quali non avrebbero mai sospettato che in quel sito precipitoso avesse potuto trovarvi asilo anima viva. Ogni cinque e talvolta ogni quattro giorni, veniva a trovarmi tutto spaventato il Candido Cassano detto Driulin, che si era di me incaricato. Mi portava pane o polenta e una borraccia d'acqua. La neve e l'abbandono mi obbligarono a fuggire dalla mia spelonca il giorno 26, col favor della nebbia, resa più densa dal nevicare, sfinito da diciotto notti di patimenti crudeli.
La notte dal 24 al 25 poco mancò non fossi svelto dal mio giaciglio dal turbine che spaventevolmente durò sino al giorno successivo. Ero tutto bagnato, e per unica provvista avevo un tozzo di polenta fredda e un po' di cacio.
La notte del 26 comincia a nevicare. Non vedevo anima viva da tre giorni. Parto da disperato all'alba, e dopo corso sotto continua neve tutto il giorno, sempre attraversando monti burroni pericolosi, arrivo sfinito ad un amico casolare, e finalmente dopo diciotto giorni posso assiedermi al fuoco e parlare con qualche persona.

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LA VAL TRAMONTINA - La val Tramontina ha vissuto nei secoli scorsi una particolare situazione di espansione demografica che ha portato alla massiccia colonizzazione del territorio. La popolazione mirava allo sfruttamento delle risorse montane, legname e pascolo per armenti, commerciando i prodotti principalmente con la Serenissima dalla quale aveva ottenuto particolari agevolazioni fiscali. Nel 400 e nel 500 due erano i prodotti di punta della vallata: il formaggio di pecora, che era il cibo di lunga conservazione più usato dalle navi veneziane che solcavano i mari dell’oriente, e la lana filata in modo particolare denominata “panno grigio tramontino”. Cominciarono ad essere edificate lungo le linee di transumanza numerose stalle che erano abitate nel periodo estivo. Nei secoli successivi Venezia modificò le sue esigenze richiedendo prodotti di pregio come i formaggi di bovino. Lentamente si cambiò in valle il tipo di allevamento costringendo i pastori a stabilirsi, edificando veri e propri paesi presso le zone di pascolo, condizionati dalla scarsa attitudine agli spostamenti dei lenti e impacciati bovini. Questa vocazione all’allevamento è testimoniata anche dal simbolo della vacca nel gonfalone municipale di Tramonti di Sopra. Sorsero così numerosi insediamenti abitativi, ben 136, alcuni vere e proprie frazioni con tanto di chiesa, la maggior parte piccoli gruppi di case, spesso a notevole distanza dai capoluoghi principali della valle, collegati da mulattiere non sempre agibili tutto il tempo dell’anno. Nel tempo la pressione antropica sul territorio divenne devastante fino all’orlo di un vero e proprio disastro ecologico. Quando le risorse agricole e forestali non furono più sufficienti la popolazione fu costretta all’emigrazione, dapprima solo stagionale, in funzione di un’integrazione del reddito, e poi permanente. L’industrializzazione del novecento ha definitivamente fatto abbandonare gli insediamenti colonici e ridotto drasticamente anche gli abitanti delle ville principali.
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