Diabete

LA PREVENZIONE DEL DIABETE.
 
Considerate le cause apparentemente modificabili e la rilevanza sociale del diabete, vari studi sono stati condotti per individuare se esso potesse essere evitato, attraverso la correzione di fattori legati allo stile di vita o con dei farmaci.
La risposta unanime è stata che è possibile sia prevenire la comparsa di DM2, sia esiste la possibiltà di ritardarne la sua insorgenza e che l’intervento attraverso la modifica degli stili di vita è efficace almeno quanto quello farmacologico.
La differenza “filosofica” nell’approccio preventivo con la modifica dello stile di vita è che mentre esso agisce a monte direttamente sui fattori di rischio (sedentarietà ed alimentazione), il farmaco interviene a valle su  una modificazione biochimica. L’intervento sullo stile di vita incorre in effetti collaterali minori e più lievi rispetto a quelli con i farmaci, ma i suoi effetti possono essere non durevoli, per cui necessitano di periodico rinforzo motivazionale. Il problema più difficile da affrontare quando si parla di modifica di stili di vita non è tanto sapere se funzionano o meno, ma incidere sull’aderenza della persona al cambiamento ed ancor più sulla durata nel tempo.
La chiave del successo degli interventi sulla stile di vita è dunque trovare la strategia migliore per ottenere l’aderenza della persona.
 
Prevenzione con alimentazione.
Gli studi ci dicono che attraverso una dieta equilibrata e ipocalorica è possibile ridurre l’incidenza di diabete del 33%.
L’impressione è che non sia un tipo particolare di dieta più efficace di un’altra, ma il valore aggiunto derivi dalla restrizione calorica: in sostanza non è tanto ciò che mangiamo, ma quanto mangiamo, che incide sul risultato di diminuire i casi di diabete.
Non vi sono dubbi circa l’efficacia della modifica dell’alimentazione nei confronti della prevenzione del diabete, ma ve ne sono e parecchi circa come indurre le persone al cambiamento ed ancor più come farle durare nel tempo.
In quasi tutti gli studi che hanno verificato l’efficacia della modifica di movimento ed alimentazione, l’intervento è stato intensivo e di tipo collettivo anziché individuale (incontri di gruppo), sia per una maggiore economicità, sia al fine di favorire l’interazione positiva tra soggetti che condividono una medesima problematica. Gli operatori intervenuti erano parte di un team multidisciplinare, che comprendeva dietista/nutrizionista, medico dello sport/scienze motorie, pedagogo, psicologo: i vantaggi di efficacia di un intervento multidisciplinare è controbilanciato dalla difficoltà di riproporlo nelle situazioni più periferiche o con poche risorse economiche e di personale.
 
Prevenzione con alimentazione ed esercizio.
La migliore strategia che attraverso la modifica dello stile di vita è in grado di ottenere una riduzione dell’incidenza di diabete è quella che si basa su alimentazione e movimento: se associati, la diminuzione può arrivare del 50%.
Ciò che è rilevante è che gli effetti perdurano nel tempo anche dopo la sospensione dell’intervento di modifica alimentare e con il movimento.
Sono stati compiuti numerosi studi che hanno dimostrato che l’incremento di attività motoria riduce l’incidenza di DM2 nei soggetti a rischio: le conclusioni ribadiscono che lo svolgimento di regolare attività fisica è associata ad una significativa riduzione dell’incidenza del DM2 sia a medio (5 anni) sia a lungo (14 anni) termine, nei maschi e nelle femmine.
Esiste un effetto dose-risposta del “farmaco movimento”: sembra che tanto più se ne assume (sia in termini di frequenza settimanale, di durata e di intensità, … eccessi esclusi) tanto più efficace esso risulta.
 
Il Physician Healthy Study (studio osservazionale, 21.271 persone, follow up di 5 anni) ha rivelato che il rischio di sviluppare diabete era inversamente proporzionale alla frequenza settimanale dell’esercizio fisico. Il rischio relativo era diminuito a 0.77 anche con una singola seduta settimanale e diventava particolarmente basso (0,58) in chi praticava esercizio in cinque o più volte a settimana. L’effetto della diminuzione del rischio era più pronunciato nelle persone sovrappeso.
 
Il Nurses’ Health Study (studio osservazionale, 70.103 donne, follow up di 8-16 anni) ha dimostrato che la riduzione del rischio era significativa già per livelli moderati di attività fisica e che l’effetto era direttamente proporzionale alla quantità di attività fisica settimanale svolta. Nelle donne più attive, la riduzione del rischio era maggiore del 60%.
 
Esiste dunque un dimostrato effetto dose-risposta tra l’esercizio e la prevenzione del DM2, che dipende dalla frequenza settimanale dell’esercizio sia dalla quantità totale di esercizio svolto e dall’intensità con cui è statop effettuato il lavoro.
Se volessimo quantificare ciò che potremmo ottenere con una moderata (camminata veloce, bicicletta a <16km/h, golf, giardinaggio, … 3-6 MET) attività fisica (che è quella più facilmente proponibile) si può affermare che si potrebbe ridurre l’incidenza di DM2 del 30%.
Tutti gli studi osservazionali sono concordi nell’attibuite alla moderata e regolare attività fisica un effetto protettivo sull’insorgenza del DM2, effetto che è particolarmente pronunciato nelle persone a più alto rischio di sviluppare la malattia (sovrappeso/obesi, “prediabete”, familiarità, GDM…)
Risulta inoltre che l’efficacia del “farmaco-movimento” non si riduca con l’età delle persone, ma valga anche per la fascia più anziana della popolazione.
 
Sono stati effettuati anche numerosi studi d’intervento che hanno valutato l’effetto della modifica dello stile di vita (in particolare movimento ed alimentazione), molti dei quali sono stati realizzati su persone con intolleranza la glucosio, in quanto questa è una popolazione con alta probabilità di evolvere verso il diabete.
In genere gli interventi proponevano una restrizione di calorie e grassi saturi, aumento delle fibre, aumento dell’esercizio fisico e autocontrollo comportamentale.
 
Il cinese Da Quing IGT and Diabetes Study (studio randomizzato, su 577 persone con IGT, iniziato nel 1986 con follow up di 6 anni) ha suddiviso le persone in 4 gruppi (controllo, solo dieta, solo esercizio, esercizio + dieta) portato al risultato che il rischio di sviluppare un DM2 si riduceva del 40-50%, senza differenze significative all’interno dei 3 gruppi. Un dato particolarmente interessante era che anche quando non si verificava un calo di peso, la riduzione del rischio si attestava al 46%.
A distanza di 6 anni infatti l’incidenza cumulativa di diabete era del 68% nel gruppo di controllo (cui erano state date solo generiche informazioni circa alimentazione e movimento, in assenza di counselling individuale o di gruppo), del 44% nel gruppo trattato con sola dieta (normocalorica nei normopeso, ipocalorica nei sovrappeso/obesi con obiettivo di calare di 0,5-1kg al mese fino raggiungimento di un BMI di 23; per tutti la dieta era equilibrata e varia e bilanciata, ad aumentato contenuto di verdure, ridotto consumo di alcol e zuccheri semplici; i pazienti ricevevano un counselling sia individuale sia in piccoli gruppi per 1 volta a settimana nel primo mese, quindi 1 volta al mese per 3 mesi, quindi 1 volta ogni 3 mesi), del 41% nel gruppo trattato con solo movimento (incremento sia di attività fisica, sia di esercizio fisico; counselling individuale e di gruppo con la stessa cadenza della dieta), del 46% nel gruppo trattato con dieta + movimento (sommate entrambe le modalità di cui sopra). In media nel gruppo di intervento la incidenza di diabete risultava del 43%.
Nello studio sono state utilizzate tecniche di intervento che richiedevano poche risorse e potevano essere applicate ad ampie fasce di popolazione.
L’incidenza annuale è risultata del 16% nel gruppo di controllo, del 10% nel gruppo sola dieta, dell’8% di quello solo movimento, e del 9% in quello di dieta + movimento.
La riduzione del rischio di sviluppare un diabete è risultata rispettivamente del 31% con sola dieta, del 46% con il solo esercizio e del 42% con dieta + esercizio.
Al fine di scoprire per quanto tempo duri il beneficio una volta ultimato l’intervento, a distanza di 20 anni dall’inizio dello studio (nel 2006, 14 dopo la sua fine), sono stati analizzati i dati di 568 dei 577 partecipanti.
I dati pubblicati nel 2008 sono risultati impressionanti: l’esame del follow up effettuato a 20 anni di distanza ha rilevato che la riduzione del rischio di sviluppare un DM2 si manteneva anche dopo un periodo così prolungato. L’incidenza di diabete nei gruppi sottoposti ad intervento attivo era del 80%, contro il 93% di quella del gruppo di controllo (43% più bassa): inoltre nei soggetti che erano diventati diabetetici nel gruppo di intervento ce n’erano di meno in terapia con insulina (26%) rispetto a quello di controllo (34%), anche se tale differenza non è risultata statisticamente significativa. Stesso discorso per la glicata, che nel primo gruppo è risultata del 7,34%, nel secondo del 7,76%.
Sono infine state riscontrate altre differenze -benché nessuna statisticamente significativa- tra il gruppo di intervento e quello di controllo, tutte favorevoli al primo: incidenza per eventi cardiovascolari (41% vs 44%), mortalità cardiovascolare (12% vs 17%), mortalità per tutte le cause (25% vs 29%).
Le conclusioni dei cinesi sono dunque state che i notevoli benefici riscontrati durante i 6 anni di intervento peristono per le due decadi seguenti: dopo 14 anni dalla fine dell’intervento, l’incidenza di diabete nei soggetti con alterata tolleranza al glucosio è risultata del 43% inferiore, consentendo un ritardo medio di insorgenza di diabete di 4 anni.
E’ probabile che l’intervento di modifica dello stile di vita lasci una traccia positiva sulla memoria metabolica.
Non è chiaro se l’effetto del movimento e dell’alimentazione sia indipendente oppure dipenda dal calo di peso o dalla modifica della composizione corporea.
 
I dati più incredibili sono stati ottenuti in un altro studio di intervento, ossia il finlandese Diabetes Prevention Study (DPS) (studio randomizzato, 522 persone con IGT, BMI>25, età 40-65 anni, follow up di 7 anni), in cui il gruppo in esame (calo ponderale con esercizio ed alimentazione) era confrontato col gruppo di controllo in cui nessun intervento veniva praticato. Lo studio è stato interrotto dopo 7 anni, in quanto l’efficacia dell’intervento era così forte (calo di 58% del rischio di contrarre il diabete) che non era etico escludere il gruppo da questa opportunità. Il beneficio si è verificato anche in assenza di calo ponderale, in quanto in questo gruppo la riduzione del rischio era del 44%. L’effetto del “farmaco-movimento” è verosimilmente dipendente dalla dose, poiché nel sottogruppo in cui la quantità di esercizio fisico praticato era superiore alle 4 ore settimanali, la riduzione del rischio si attestava all’80%.
 
Incuriositi da tali dati ed interssati ad agire nei confronti dell’emergenza obesità, gli americani hanno fatto le cose in grande con il Diabetes Prevention Program (DPP), ove erano stati reclutate 3234 persone obese (BMI medio=34), con IGF o IGT, età media 51 anni, follow up a 3 e 10 anni. Le persone sono state distribuite in 3 gruppi: il primo trattato con il farmaco Metformina, il secondo con modifiche dello stile di vita (esercizio + alimentazione), il terzo con nessun intervento. Sia con il “farmaco-Metformina” sia con il “farmaco-movimento” è stata ottenuta una riduzione dell’incidenza di diabete ma mentre con la pastiglia la riduzione era del 31%, con lo stile di vita si poteva ottenere una riduzione del 58% (lo stesso dato del Diabetes Prevention Study). Anche in assenza di perdita di peso o con perdite non significative (3kg), la riduzione del rischio di diabete era del 44%. Sembra dunque che l’effetto dell’esercizio fisico sia pertanto indipendente dal calo ponderale. Dopo 10 anni i dati sono stati rivalutati ed il calo di rischio è risultato del 18% nel gruppo trattato con Metformina e del 34% del gruppo trattato con la modifica dlelo stile di vita. Se anziché ragionare in riduzione del rischio ragionassimo in termini di quanto si potrebbe mediamente ritardare la diagnosi, si potrebbe ipotizzare che l’intervento con il farmaco la prorogherebbe di 2 anni, mentre quella con lo stile di vita di 4 anni.
 
In un analogo studio denominato STOP-NIDDM è stato utilizzato l’Acarbosio anziché la Metformina, risultando una riduzione del rischio di sviluppare diabete pari al 25%.
A margine dei due studi è stato rilevato che nel periodo seguente alla sospensione del farmaco utilizzato per la prevenzione del diabete si sia riscontrato un tasso raddoppiato di incidenza del diabete, come a dire che tutto ciò che avevamo guadagnato prima, lo riprendiamo quasi del tutto appena interrompiamo la pastiglia: sospeso il farmaco perdiamo dunque tutto l’effetto preventivo.
 
Esiste un ulteriore problema legato al fatto di tentare di prevenire il diabete con le pastiglie e viene dai dati relativi al Rosiglitazione, che secondo lo studio DREAM ha la più alta efficacia nel ridurne il rischio, attestandosi al 62%. Purtroppo dopo anni di utilizzo di tale farmaco anche nella terapia del diabete, esso è stato tolto dal commercio, in quanto ritenuto responsabile di un’aumentata mortalità cardiovascolare. Esiste dunque il problema legato al fatto che molto conosciamo circa i farmaci e la biologia dell’essere umano, ma verosimilmente molto è ancora ciò che non sappiamo dell’interazione tra i 2 sistemi. Al momento dunque l’unica strategia prudente, efficace e percorribile per la prevenzione del diabete rimane quella attraverso la modifica degli stili di vita.
 
Sono stati effettuati molti altri studi che hanno indicato che gli interventi di prevenzione attraverso la modifica dello stile di vita (in particolar modo attraverso il movimento) sono in grado di ridurre in modo significativo l’incidenza di diabete con percentuali variabili tra il 28% ed il 63%: l’effetto è risultato maggiore ove maggiore è stata la riduzione di peso, ma tutti gli studi sono concordi nel concludere che l’effetto del movimento è indipendente rispetto a quello del calo di peso, cui si somma.
 
Il successo dei dati registrati negli studi DPP e DPS è dipeso anche dal notevole investimento in risorse impegnato, in particolare per un tipo di intervento integrato con diverse figure professionali (nutrizionale, diabetologia, psicologica): la domanda che sorge spontanea e dunque se l’onere di tale sforzo sia economicamente vantaggioso rispetto al tradizionale approccio medico. Negli USA, ove ogni atto medico è misurato dall’economista e dove vi è una maniacale attenzione alla spesa sanitaria i quanto tra gli scopi prioritari del sistema sanitario vi è quello di guadagnare, a tal fine di rispondere al quesito di cui sopra è stato dedicato uno studio di economia sanitaria che ha concluso che anche un intervento così complesso ed oneroso risulti vantaggioso in termini di rapporto costi/benefici. E se lo dicono gli americani, non v’è motivo di dubitarci.
 
Un ruolo particolarmente importante nella promozione di stili di vita sani finalizzati al cambiamento ed alla prevenzione delle malattie potrebbe essere esercitato dai Medici di Medicina Generale, in ragione della loro collocazione capillare e periferica, in grado di venire a contatto con ampi strati della società e di individuare precocemente i soggetti a più alto rischio di sindrome metabolica e cardiovascolare.
Il punto chiave perché tale azione possa essere effettuata in modo efficace è la motivazione e la formazione del Medico di Medicina Generale.

IMPATTO SULLA SALUTE.

Le persone con diabete presentano un eccesso di mortalità pari al 30-40% rispetto alla popolazione non diabetica, benché esso sembra essere correlato più al fatto che il diabete non sia ben controllato piuttosto che la sola diagnosi di diabete: ciò che fa la differenza è il buono o cattivo controllo del diabete, non tanto la diagnosi di per sé.
In questi termini va letta la ridotta aspettativa di vita, che non dipende tanto dal diabete ma dalle sue complicanze: essa risulta essere inferiore di 5-10 anni rispetto ai non diabetici.
 
COSTI. I costi diretti che incidono sul sistema sanitario sono stimati essere il 9-10% (=9,2 miliardi di €) delle risorse del SSN (dati 2009), un dato abbastanza simile nelle varie realtà europee. Nel 1998 ammontavano al 6,6% della spesa del SSN (=5,2 miliardi di €).
Sono costi diretti quelli legati alla gestione della malattia, ma molto più delle sue complicanze: ricoveri ospedalieri (rappresentano circa il 55% dei costi), farmaci (25%), visite ed esami (13%), strisce e glucometri (7%). Una persona con diabete assorbe 2,5 volte più risorse rispetto ad un pari-età e pari-sesso. Il costo medio annuale di una persona con diabete è di circa 2900€, più del doppio rispetto a persone di pari età  e sesso senza diabete.
Il rischio di ricovero per complicanze o comorbidità è da 2 a 8 volte maggiore in presenza di diabete.
I costi aumentano in modo esponenziale quando sono presenti le complicanze: se diamo il valore di 1 ad un diabete senza complicanze, la presenza di 1 complicanza quadrluplica il costo, con 2 complicanze il costo è 6 volte maggiore, con 3 complicanze è 9 volte maggiore e 20 volte più alto quando le complicanze sono 4.
In assenza di complicanze il costo diretto per la cura del diabete è di circa 800€ anno a persona, mentre in presenza di una complicanza esso cresce a 4300-6250 €/anno, essendo massima se la complicanza è la dialisi, il cui costo annuale è valutato essere di 14.000 €/anno.
Sono costi indiretti quelli che derivano dalla disabilità e dalla diminuita capacità lavorativa: assenza dal lavoro, perdita di produttività, diminuita opportunità di sviluppo economico, assistenza altrui in corso di acuzie della malattia, invalidità, pensionamento precoce … Negli USA i costi indiretti sono stati quantificati essere circa la metà di quelli diretti, anche se taluni ritengono che gli indiretti siano equivalenti ai diretti.
L’OMS stima che le malattie croniche provochino il 96% dei decessi, il 77% della perdita di anni di vita in buona salute ed il 75% della spesa sanitarie in Europa.
Obiettivo di una lungimirante politica sanitaria (vedasi a tal proposito il programma “Guadagnare Salute” iniziato nel 2007, in http://www.guadagnaresalute.it) dovrebbe essere quello di ridurre il peso delle malattie croniche sulla società, creando una cultura basata su scelte salutari e stili di vita sani, rendendo la persona protagonista e responsabile del proprio benessere.