La foiba di Balancete e le casere a Nord di Travesio

DATI
Lunghezza: 16.2 Km - Km sforzo: 27.5 Kmsf - Salita: 1130 m - Discesa: 1130 m - Dislivello totale: 2260 m - Altitudine minima: 221 m slm - Altitudine massima: 1155 m slm

Difficoltà:
Cammino: Media Nordic Walking: Media Corsa: Media Mountain Bike: Alta
Accessibilità
Disabili (carrozzina): Non accessibile
Bimbi (passeggino): Non accessibile
Famiglie: Per bambini autonomi
Anziani: Difficile
Cani: Difficile
Io peso
kg
e ho
Questo percorso corrisponde a...
Tempo
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ore
Calorie
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Kcal
Risparmio
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Vita in più
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CARATTERISTICHE - Questo lungo itinerario sulle pendici Sud del Ciaurlec (Turié) è denso di spunti, tra cui quelli storici relativi alla foiba di Balancete che verranno nel dettaglio illustrati rappresentano gran parte dell'interesse. Quello qui descritto è il più breve ma anche il meno battuto tra gli accessi alla foiba, che viceversa è più facilmente individuabile con il percorso che da Nord si cala nei pressi dei ruderi di casera De Zorzi. Trattasi di zone carsiche assai povere di acqua, che potremmo trovare solo dentro casera Sinich o (in caso di emergenza) compiendo una deviazione alla fonte Racli, prima di arrivare a casera Tamer Alta. Il periodo ideale per la percorrenza è l'autunno.  

ORIGINE DEL NOME  - Si narra che un tale soprannominato Balancetta e residente a Toppo, onerato dai debiti, abbia deciso di por fine ai suoi travagli gettandosi nell'abisso. Dopo lunghe ricerche, i suoi paesani trovarono la lettera in cui egli aveva manifestato i suoi propositi e quindi cercarono un ardimentoso disposto a scendere nel pozzo per recuperare la salma. All'appello rispose un anziano spazzacamino che, calatosi nella voragine, trovò il corpo dello sventurato e lo fece recuperare alla superficie. Sia il recupero del cadavere che, successivamente, quello dello spazzacamino furono però lunghi e difficoltosi e così questi, sottoposto a tali fatiche e inusitate emozioni, sopravvisse ancora solo pochi mesi, con la mente sconvolta per la tremenda avventura

CONTESTO STORICO- La foiba di Balancete non condivide nulla della storia delle foibe del confine orientale, e deriva la sua importanza dal fatto di essere stata la prima foiba italiana da cui siano stati estratti cadaveri.
Nel dicembre 1943  sul Ciaurlec si insediarono i primi ribelli all'occupazione nazista: si trattava di partigiani di matrice garibaldina, a cui si aggiunse nel 1944 un numero molto alto di partigiani dell’ultima ora, che contribuirono all'imbarbarimento delle dinamiche tra occupanti, resistenti e collaborazionisti.
Nel gennaio 1944 i primi 2 civili vennero prelevati dai partigiani “per fare i cuochi a Gorizia”: altri 3 a marzo…in tutto tra le pendici del monte nel 1944 scomparvero 36 persone, altre 2 nel 1945. 
A fine novembre-inizio dicembre 1944 avvenne un grande rastrellamento tedesco con l'insediamento di forze cosacche: i tedeschi distrussero ed incendiarono molte case dei paesi e la gran parte delle casere del Ciaurlec, poiché la valle di Castelnovo era divenuta uno dei più importanti insediamenti resistenziali.
Nel 1944 su ordine dei maggiori SS Nielman e Schlieben un ragazzo di 19 anni Primo Zanetti fu impiccato alla porta occidentale di Spilimbergo; Giovanni Missana di 15 anni venne invece impiccato ad un lampione di Valeriano: oltre alle limitazioni delle libertà, alle violenze quotidiane, alle fucilazioni ed alle deportazioni, erano efferatezze simili a queste che spinsero i partigiani a "prelevare" coloro i quali erano ritenuti essere spie dei tedeschi.
DESCRIZIONE - Partiamo da quota 221mslm dalla chiesa di San Antonio a Travesio (tra via Riosecco e via Praforte) e saliamo lungo la strada asfaltata (via Praforte) che passa accanto all'originale allevamento (anche di lama) Zalpa e poco dopo al bell'agriturismo alle Genziane fino ad arrivare ai esti del borgo Praforte, la cui storia merita una sosta ed un eventuale passaggio, visitando anche la chiesa di San Vincenzo ed il pittoresco cimitero (vedi qui sotto la storia). Senza la deviazione per Praforte giungere alla forcella (455mlsm) dove si trova l'ancona di San Antonio e da dove inizia il sentiero CAI 850A ci sarà costato 2km di strada e 230 metri di salita: in alternativa e volendo accorciale il percorso potremmo arrivare fin qui in auto.
Il tratto di sentiero che sale verso l'ancona della Santissima Trinità è davvero notevole: i passi camminano su fondo in pietra semilastricati e tra muri a secco in pietra. Poco prima di arrivare all'ancona troveremo un bivio in cui devieremo a sinistra per salire in breve sul Ciucul Taront (529mslm), primo cocuzzolo densamente panoramico, da cui scenderemo su brevissimo versante opposto che ci porta all'ancona della SS Trinità, al cui ingresso le cui due grandi testate di bombe sono il punto di intersezione geografica ed ideale tra temi politici, storici e religiosi di questo cammino.
Ora viene il punto più difficile: individuare l'inizio del nascosto sentiero che conduce alla foiba da Sud. Abbiamo tre opzioni: un'ottantina di metri dopo l'ancona la prima possibilità è di individuare sulla sinistra un sentiero che dopo una breve (70 metri) salita (30%) si congiunge ad una mulattiera: proprio di fronte lo sbocco del sentiero sulla strada, dall'altro lato troviamo una debole traccia di sentiero. La seconda è di camminare dall'ancona lungo il largo sentiero principale fino ad arrivare dopo 140 metri alla mulattiera: andiamo a sinistra, procediamo per una sessantina di metri ed in corrispondenza dell'evidente sbocco a sinistra del sentiero di cui dicevo prima, individuiamo sulla destra l'evanescente inizio del sentiero che sale tra l'erba. La terza è di scaricare dal sito la traccia allegata e farsi guidare da proprio telefono o satellitare, opzione che si rivelerà in seguito utile anche per trovare la foiba.
Il sentiero non è molto battuto, non presenta segnavia, ma è abbastanza facile da seguire: transita per alcuni tratti di prato ed altri nella boscaglia, misura 1,3km ed ha pendenza media del 10%: esso termina sui resti di una mulattiera su cui ci innesteremo proseguendo a sinistra e continuando per 220 metri fino a quando su un albero troviamo una segnale che indica a destra "foiba di Balancete". Da qui termina il sentiero e procediamo ad intuito tra un'ampia apertura pratosa della boscaglia in direzione di un cartello militare rettangolare arrugginito del vecchio poligono. Da qui ci spostiamo sulla sinistra fino a trovare poco dopo un secondo segnale che con una freccia direzionale indica "foiba": sarà l'ultima indizazione disponibile. Tenendo bene a mente la direzione indicata dalla freccia seguiamo a salire seguendo la via che risulta più comoda ed aperta: fortunatamente la zona è principalmente pratosa ed i pochi alberi permettono bene la possibilità di orientarsi. Quando riusciremo ad individuare l'alzabandiera ed i colori della bandiera italiana, la foiba di Balancete sarà raggiunta. Dalla foiba originano evidenti segnavia rossi che ci accompagnano in direzione Nord verso i ruderi di casera De Zorzi (che peraltro io non sono riuscito ad individuare): tra la foiba ed il sentiero CAI 850 ci sono solo 280 metri (14%): evidentemente questo accesso risulta il più facile per raggiungerla. Per intendersi, l'accesso da me qui descritto, a partire da quando lasciamo la mulattiera e procediamo a tentoni misura 660 metri (14%). La descrizione della foiba è visualizzabile cliccando QUI.
Una volta raggiunto il CAI 850 non avremo pù problemi di orientamento: dopo 400 metri (5%) sulla destra passeremo accanto ad i ruderi nascosti nella vegetazione di casera Friz
Dopo altri 600 metri (4%) raggiungeremo casera Sinich (849mslm), un ricovero di fortuna che presenta panche e tavole ed all'interno un rubinetto con acqua.
Continuiamo sul CAI 850 in direzione di casera Tamer Alta (1115mslm) che raggiungeremo dopo 2km (13%) lungo un bellissimo sentiero principalmente in sottobosco: 
A poche centinaia di metri dalla casera nei pressi dell'altipiano pratoso del Ciaurlec troviamo il bivio con il CAI 819: noi proseguiamo lungo il CAI 850: dopo 260 metri troveremo sulla destra l'inizio del breve sentiero che in 5' ci porterebbe sulla sommità del monte Ciaurlec (1145mslm), che però a causa della vegetazione non presenta possibilità panoramiche.
Ora ci attende un lungo (2,5km) sentiero (CAI 850) di discesa (-9%) in parte su sottobosco in parte tra zone pratose fino a giunge al bivio che a destra porta sul monte Davanti (947mslm), mentre noi proseguiamo oltre sul CAI 850A, che poco oltre termina a casera Davass (891mslm): passeremo dinnanzi alla casera dove faremo attenzione a non scendere lungo il CAI 850A che scende a Toppo, ma seguire il suo proseguimento in direzione di Travesio. Dopo un iniziale comodo traverso (350 metri) la discesa si cala un pò più pendente in un tratto estremamente panoramico e dopo 250 metri (-26%) giunge ad un altro incrocio nei pressi di casera Pultz (ruderi) dove a destra il CAI 850 scende in direzione di Toppo, mentre noi proseguiremo dritti fino a giungere alla mulattiera nei pressi di Col Taront.
Da qui la discesa accompagna la mulattiera su un evidente e spettacolare sentiero che segue il margine del monte ed offre panorami davvero notevoli: scendiamo verso l'ancona della Santissima Trinità, ove anziché scendere seguendo i passi già calpestati, guardandola cerchiamo sulla sua destra e sul davanti ad essa l'imbocco del sentiero che scende all'ancona Soravilla, che raggiungeremo dopo 500 metri (-18%). Mancheranno ancora 600 metri (-24%) per rientrare sull'asfalto nei pressi dell'incrocio tra via Praforte e via Breli. Ormai mancheranno solo 550 metri per rientrare al punto di partenza.

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ETIMOLOGIA E SPELEOLOGIA DEL FOUS DI BALANCETE: a questo link troviamo la desrizione geologica delle grotta e la storia da cui origina il nome

LA FOIBA DI BALANCETE - Estratto di articolo di Lea Mencor su rivista “Crimen” del febbraio 1949 

   Nel gennaio 1946 la triestina signora Bressanuti Lucia su consiglio dell'allora Preside della Provincia dott Palutan, si rivolgeva implorante all’Ispettore Umberto Degiorgi dirigente del reparto Scientifico della Polizia Civile della Venezia Giulia. Il di lei figlio, Vinicio Bressanutti, di anni 17, giovane aitante, appassionato dello sport della montagna, era scomparso fin dall’agosto 1944. Il povero ragazzo per sottrarsi all’imminente arruolamento effettuato dai tedeschi fra i giovani triestini, aveva ritenuto opportuno allontanarsi da casa e si era recato presso una famiglia di amici nel paesino di Travesio. Quivi, attratto dalla sua passione sportiva, intraprese una gita verso le falde del monte Tamer, dal quale non fece più ritorno. La povera madre, che non si era risparmiata pericoli e fatiche alla ricerca dell’adorato figliuolo, aveva finalmente trovato aiuto e conforto da un apostolo della fede, don Basilio Miniutti Arciprete di Travesio. Il buon sacerdote, al quale si deve se il paese non fu distrutto per rappresaglia dai tedeschi, era riuscito ad individuare in alta montagna, il punto in cui era stato sepolto il povero Vinicio, che sorpreso da sedicenti partigiani era stato ucciso ai piedi della montagna, nonostante il viso imberbe ed i calzoni corti mostrassero con evidenza la sua giovane età.
   La desolata madre disse all’Isp. Degiorgi che il dr. Palutan l’aveva favorita in quanto poteva, facendo costruire un feretro entro cui riporre i resti dell’infelice giovane, ma che era necessario si rivolgesse al commissario, il quale aveva già dato prova di tanta abilità nel ricupero di salme nella cosiddetta “campagna della morte” compresa nel triangolo Ronchi-Redipuglia-Aquileia, poiché solo lui avrebbe potuto trovare il modo e i mezzi per il ricupero e il trasporto al cimitero di Trieste dei resti del povero Vinicio.
   Il cuore paterno dell’Ispettore, scosso dalle cocenti lacrime che accompagnavano la narrazione della supplice madre, organizzò la spedizione pur superando non lievi ostacoli. Il paese di Travesio esulava dalla giurisdizione territoriale della Polizia Civile della Venezia Giulia, tuttavia la provincia di Udine era ancora controllata militarmente dalle truppe alleate, cosicché il bravo ispettore riuscì a convincere il suo diretto superiore cap. inglese Bolt, della opportunità dell’intervento. La spedizione ebbe inizio la sera del 20 febbraio 1946 e fu condotta a termine la sera seguente con il trasporto al cimitero di Trieste dei resti della giovane vittima.
   La stessa sera del 21 febbraio 1946, mentre l’Isp. Degiorgi trovavasi nell’Ufficio Parrocchiale di Travesio intento a redigere il verbale di recupero e di identificazione della salma del Bressanutti, due giovani e una donna vestiti a lutto si presentarono a lui, gli si inginocchiarono davanti, e piangenti implorarono, ch’egli li aiutasse a estrarre da un pozzo profondo 85 metri il corpo straziato della loro adorata madre e rispettivamente sorella. Erano costoro gli orfani fratelli Agosti, di 17 e 19 anni, figli dei proprietari dell’unico caffè del paese, che accompagnati dalla zia erano accorsi in cerca dell’Isp. Degiorgi per raccontargli come fossero stati orbati di entrambi i genitori e che mentre la salma del loro papà era stata ritrovata sepolta presso una stalla, quella della madre era stata gettata nella foiba denominata “Fous di Balancetto”, il cui orificio si apre sulle falde del monte Tamer, a circa 800 metri sul livello del mare in un punto poco distante da dove erano stati dissepolti i resti di Vinicio Bressanuti.
   L’Ispettore promise di occuparsene e pertanto consigliò don Miniutti di scrivere al Capo della Polizia Civile della Venezia Giulia colonnello inglese Thorn pregandolo di voler dare l’incarico all’Isp. Degiorgi di procedere, a mezzo dei suoi bravi uomini, al difficile recupero delle salme giacenti in fondo all’orrido pozzo. Il colonnello Thorn accordò di buon grado il suo assenso e dopo una meticolosa preparazione ed accurata attrezzatura con mezzi ideati ad hoc, la seconda operazione ebbe luogo il 6 aprile 1947.
   La squadra composta da agenti di Polizia, vigili del fuoco e giovani speleologi raggiunse Travesio nel tardo pomeriggio a bordo di due autocarri. Sugli automezzi erano state caricate corde, carrucole, scale, argani, travicelli, lampade a carburo ed elettriche, maschere anti gas, autoprotettori ad ossigeno, oggetti di pronto soccorso, viveri di conforto, nonché 12 bare grezze che tanti apparvero i corpi umani da recuperare in seguito ad una opportuna esplorazione nel fondo dell’abisso.
   La desolata famiglia Agosti si prodigò nel fornire alloggio e vitto per la squadra, mentre l’Ispettore preso contatto con don Miniutti provvide a far trasbordare su due slitte a trazione bovina gli attrezzi e le bare. Prima dell’alba del giorno 7 aprile, guidata dal buon pievano ed alla luce smorta delle stelle, la mesta carovana iniziava la salita avente per meta le falde del monte Tamer; i congiunti delle vittime portavano seco delle lenzuola di bucato: i mesti sudari per riporvi pietosamente i resti dei loro cari.
   Dopo due ore e mezza di faticose salite si giunge sul dorso di un cordone roccioso ove 50 metri a valle di una bicocca diroccata si ergeva una rozza croce. Un’ora occorse per sistemare le opere di sollevamento, indi vennero gettate tre rampate di scale di corda da 30 metri ognuna e discesero in cordata, ammainata a mano, i primi due uomini che rassicurati dalle non cattive condizioni di respirazione, a mezzo della resistenza della fiamma di una candela, si fecero calare i sacchi confezionati su modello ideato dall’Ispettore, onde poter estratte i corpi attraverso la stretta imboccatura del pozzo. Sette ore durò l’estenuante lavoro, durante il quale furono ricuperati 11 cadaveri fra cui 5 donne, oltre a quelli del messo comunale di Travesio, del commerciante di Meduno signor Giordani, del custode della vecchia polveriera, di un militare italiano e uno tedesco. 
Man mano che i cadaveri venivano estratti l’ispettore procedeva all’esame dei resti, ormai allo stato saponoso e basandosi sui dati forniti dai parenti circa gl’indumenti le caratteristiche ed anomalie della dentatura, il colore e l’acconciatura dei capelli, riuscì ad identificare le 11 vittime. 
   Composte le bare e ricaricate le slitte il macabro corteo ridiscese verso Travesio ove giunse al crepuscolo. Intanto mani pietose avevano addobbato a lutto la piccola chiesuola di San Giuseppe e poiché la notizia del ricupero era volata per il paese, al loro giungere, da presso la canonica e fino alla porta della Chiesa, la strada era fiancheggiata dai bambini del paese che avevano fra le mani fiori campestri.
   Il giorno seguente ebbero luogo i funerali in forma solenne, ai quali partecipò l’intera popolazione del paese con scolaresca, bandiere e musica, officiante il buon vecchio arciprete.
   Fu da tale riuscitissimo servizio che l’Isp. Degiorgi trasse la convinzione di potersi mettere in grado di recuperare numerosissimi cadaveri di italiani giacenti nel fondo delle foibe del Carso ed ideò per la bisogna, una speciale grù volante che fece applicare sull’avantreno di un autocarro leggero munito di argano e verricello e perfezionò i sacchi in modo da rendere più sollecito il ricupero delle salme.
   La notizia del ricupero delle salme di Travesio fece germogliare nel cuore di tante mamme triestine la speranza di poter riavere i resti dei lori figli infoibati.
   E furono molte quelle che si rivolsero all'isp. Degiorgi ad implorare il suo intervento ma nel frattempo il bravo isperttoreera stato diffidato a non procedere ad altre esumazione. Sembra che all'ufficiale superiore, che era allora a capo degli affari civile del Governo Militare Alleato non garbasse mettere a nudo certe piaghe....e che avesse detto che bisognava lasciare dormire in pace i morti.
   Ma le madri della diciannovenne Dora Cioke del ventenne Adriano Zarotti, due popolane triestine di origine slovena, accomunate dall'atroice dolore  e straziate per la beffa subita per molti mesi durante i quali  furono fatte peregrinare invano per i numerosi campi di concentramento jugoslavi in cerca delle loro creature, non si potevano dare pace. Esse si recavanmo da un campo all'altro, da una Croce Rossa all'altra e per vie indirette giunsero fino agli atroci infoibatori delle loro creature che, beffa suprema alla Maternità e alla Morte, le invitarono a far ricerce in un campo di concentramento jugoslavo, ben sapendo (specialmente il Ciok, che aveva infoibato la bellissima cugina per bieca gelosia) che i loro cadaveri giacevano ormai da molti mesi nella fonda gola del loro paese.
  Ma le dolenti madri tanto fecero e camminarono finchè mossero a pietà il maggiore inglese Hobs, che dopo avere preso visione di alcune fotografie fatte assumere notettempo nel fondo dlela foiba di Gropada profonda 75 metri, che mettevano in evidenza l'esistenza certa di cadaveri, autorizzò l'ispettore Degiorgi a procedere al ricpero di esse.
   Il 13 agosto 1946 anche tale compito fu assolto lodevolmente dalla suadra diretta dal bravo ispettore Degiorgi, che riuscì a ricuperare 5 cadaveri di triestini, quelli dei giovani Zarotti Adriano e Ciock Dora, Zerial Luigi, Zulian Carlo e marega Alberto.
Il 18 agosto nel camposanto di Trieste furono tributate solenni onoranze alle povere vittime.
Forse mai nella storia un funzionario di Polizia fu tanto oggetto di tanta simpatie da parte di un vasto stuolo di dolenti congiunti, amici e conoscenti degli scomparsi

ANCORA SULLA FOIBA DI BALANCETE - Interessanti i link a cui fa riferimento l'articolo

LA STORIA DI PRAFORTE - DI GIUSEPPE RAGOGNA - Praforte è una borgata che si trova abbarbicata sulle pendici orientali del monte Ciaurlec, a 350 metri d’altezza, in comune di Castelnovo del Friuli. Lì il tempo si fermò qualche decennio fa.
Nonostante lo stato di abbandono, mantiene ancora un’impronta architettonica che resiste all’incuria: gli edifici di sasso, i ballatoi in legno, i terrazzamenti costruiti ad arte per coltivare varietà autoctone di alberi da frutta e viti, le mulattiere acciottolate, i muretti a secco, la chiesetta di San Vincenzo con accanto un ordinato cimitero. Nei periodi migliori era forte il fascino di un’orgogliosa identità.
Eppure, la vita si interruppe attorno alla metà degli anni Sessanta a seguito di un ordine perentorio di sgombero. Le poche famiglie rimaste non riuscirono a fronteggiare la dura legge delle carte bollate. Issarono bandiera bianca e se ne andarono.
Non c’era nulla da fare al cospetto di un atto amministrativo che metteva nero su bianco i pericoli fino a quel momento sussurrati: una frana minacciava l’incolumità delle persone. I sopralluoghi si fecero sempre più frequenti, anche se nessuno voleva credere a rischi particolarmente gravi.
Per carità, il territorio era vulnerabile sotto il profilo idrogeologico: piccoli smottamenti si registravano nei periodi delle grandi piogge. E sono tuttora ricorrenti in quelle aree fragili. Ma quelli erano gli anni successivi alla tragedia del Vajont. Nessun amministratore pubblico era disposto ad assumersi un carico eccessivo di responsabilità.
La borgata aveva già di per sé altri problemi. Per esempio, era inarrestabile l’esodo dovuto dalle condizioni di vita difficile. Agli inizi del Novecento i dati anagrafici registravano circa 200 anime. Gli abitanti vivevano con quel poco che la montagna offriva, ingegnandosi a fare un po’ di tutto.
Campavano con un po’ di agricoltura e con qualche piccolo allevamento. Per lungo tempo, i prodotti venivano piazzati dalle “rivindicules cjastelanes” nei mercati sparsi nella pedemontana. I contatti erano garantiti da una parte con Travesio (collegamenti più comodi) e dall’altra con Almadis, poco distante da Paludea (capoluogo di Castelnovo), dove la latteria sociale era gestita proprio dal casaro che scendeva da Praforte.
Le persone più ingegnose mantennero viva la tradizione degli scalpellini, molto diffusa nell’intero territorio. I più bravi abbandonarono il piccolo borgo natio per emigrare in giro per il mondo. Così, la grande fuga assottigliò progressivamente le presenze, lasciando in loco chi proprio non voleva saperne di recidere le radici, soprattutto per motivi affettivi.
Nel dopoguerra arrivò anche la luce elettrica, ma non cambiò più di tanto la vita dei residenti. Ormai dell’antico paese era rimasto ben poco, non più di una quindicina di famiglie. Di per sé era un nucleo autonomo, minacciato più dai fenomeni irresistibili della “modernità”, che da quel maledetto pericolo di frane citato nell’ordinanza di sgombero.
Anzi, con il senno di poi, i rischi di smottamento vennero ben presto archiviati nel libro della Storia tra i “pretesti” ben orchestrati dalle autorità per sbarazzarsi di un’esigua presenza ingombrante di persone, soprattutto anziane. Si sa, i servizi costavano e il Comune non navigava nell’oro.
Però, l’emergenza frane proprio non convinceva. Guarda caso, in quell’area si sviluppava un’intensa attività militare. Ecco la vera questione: il Ciaurlec era di fatto uno dei poligoni più trafficati d’Italia, un’area strategica ben inserita nella desolata landa orientale.
Negli anni della “guerra fredda” i cannoneggiamenti erano martellanti, prolungati e pericolosi. «Spesso qualche ordigno scoppiava proprio vicino alle abitazioni, provocando le vivaci proteste della gente» ricorda ancora Renato Cozzi, che di Praforte (e dell’intera Val Cosa) è un testimone fondamentale, uno dei pochi rimasti a raccontare storie di generazioni di montanari.
«Mi ricordo di un maiale ucciso dalle schegge di un ordigno - rivela fra tanti altri aneddoti - e di altri incidenti accaduti in una borgata troppo esposta alle attività addestrative». Dove la natura non infierì, lì ci pensò l’uomo.
Lo “sfratto coatto” di una micro-comunità, ormai senza voce, fu quindi dettato più da rigide logiche militari che da ragioni legate ai capricci del terreno. Così, quando la resistenza dei pochi abitanti si affievolì, e la rabbia si trasformò in rassegnazione, scoccò implacabile l’operazione dello sgombero.
Gli sfollati furono sistemati provvisoriamente a Travesio, poi trapiantati a Paludea, nel modesto agglomerato di case a schiera vicino al municipio; un “borgo artificiale”, senz’anima, denominato “Praforte Nuovo”, costruito con i soldi della Regione.
Nessuno ritornò a vivere stabilmente nelle vecchie dimore: le poche presenze non sono nulla di più di una semplice “toccata e fuga”, giusto per seguire l’orto e qualche piccolo allevamento di pecore e di galline. Poca roba.
Alla fine, l’unica a non muoversi fu la frana che, secondo gli esperti e gli autori dell’ordinanza di sgombero, si sarebbe dovuta manifestare come un terribile Orcolat in un luogo particolarmente fragile. Invece, nonostante gli scossoni provocati dalle tremende cannonate durante le esercitazioni militari, non si verificò nulla di sconvolgente.
«Al limite - ricordano alcune testimonianze - gli smottamenti potevano interessare un paio di case, quelle più esposte sul costone del monte, non certo l’intera borgata che ha dimostrato di essere solida, passando indenne anche attraverso il disastroso terremoto del 1976».
La memoria di Praforte è sbiadita dal tempo: una fiammella di candela che si sta spegnendo. E non essendoci più le ultime “sentinelle”, gli spazi sono aggrediti dall’invasione della boscaglia. La natura non si ferma. Arbusti e rampicanti continuano a coprire le case più diroccate, tant’è che alcune pareti di sassi sembrano reggersi soltanto per i cespi d’edera che le avvinghiano.
Da tempo anche il poligono ha cessato ogni attività. È semplicemente un brutto ricordo per la popolazione che fu costretta a conviverci. Nella borgata fantasma domina il silenzio. Praforte è ormai un monumento alla memoria con al centro, appeso a un palo, in bella vista, un cartello che chiude una storia assai tormentata: «Non c’è nulla da rubare, ci hanno rubato tutto».
Fondo del percorso